_PROPONIMENTO
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Fornitura del 1989_ |
_BASSE DEFINIZIONI PRODUCTION
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Il 20 marzo e il 20 ottobre 1975 la Frazione Clandestina aveva proposto due eventi visivi: la proiezione delle sole didascalie dell'intero film muto di Marcel L'Erbier "L'Argent", e la visione del servizio TV della CBS sul funanbolo francese Philippe Petit che, appena qualche mese prima, era riuscito ad esibirsi dalla sommità delle due torri gemelle del Worl Trade Center di New York. Le due proiezioni si svolsero ripetutamente in una casa privata, dietro appuntamento telefonico.
Dal 16 al 30 aprile del 1979, l’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva, finanziato dalle edizioni Bianco/Nero, organizzò al cinema Quirinetta di Roma “Di.A.Rte – divulgazioni effimere”, la visione durante la normale programmazione cinematografica di una serie di diapositive realizzate da diversi artisti, proiettate in sostituzione della pubblicità commerciale negli intervalli cinematografici. Nel 1989, dieci anni dopo quest'ultimo evento, Tullio Catalano ed io volevamo unificare le due esperienze e ci recammo in via Emanuele Gianturco, dove aveva sede la Società che distribuiva la pubblicità commerciale nelle sale cinematografiche di Roma. La Società era in una profonda crisi e stava quasi per fallire. Così alla fine, tra questioni organizzative e problemi tecnici, non se ne fece più nulla. Di quest'ultimo progetto rimane tuttavia un testo programmatico, più o meno indefinito, che, unitamente alle visioni private di Cinema e Télévision d'Essai, segnano la suggestione sotto la quale proponiamo le attuali iniziative di Basse Definizioni Production, presenti in edicola sia come pagine Internet che visibili isolatamente sul canale YouTube. |
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[ il testo dattiloscritto ] «…. programmare una serie di accadimenti non rituali e a latere, comunque fuori dal conformismo indotto dai mezzi di comunicazione di massa, che stanno muovendosi verso una “propria” alta definizione nel resistibile tentativo di realizzare quella che in fondo altro non era che una profezia: l’identità di “media” e “messaggio”, non intesa come una ricerca di specificità linguistica dei media, bensì quale soppressione del secondo termine, ossia superfluitazione del pubblico – quando ridotto a semplice membro passivo dell’intero apparato mediale.
I mezzi di comunicazione, contrariamente a tutti gli altri mezzi di produzione, anche dopo aver raggiunto la loro piena maturità non vengono superati tecnologicamente e non scompaiono; invece si accumulano e rimangono vitali pur subendo fasi di alterna fortuna. Così tutti ci sono pervenuti grosso modo indenni, ognuno più o meno in salute, comunque tutti allineati e parimenti disponibili per le scelte espressive che si sono potute giovare di questo effetto moltiplicativo per le loro particolarissime forme di produzione. Allora, da parte nostra, la predilezioni per prodotti che si accampano fuori dalle esigenze isterologiche del mercato (sia pure per antonomasia, se non più per strutturale e completa autonomia da esso); e la loro ricaduta nelle camere oscure del desiderio torturato dalle luminescenze di una opulenza tantalica, non vuole porre e neanche indulgere ai privilegi di primogenitura o anacronistica egemonia in tale molteplicità di fondo (della quale comunque usufruiscono e beneficiano), piuttosto intende richiamare la necessità di un ampliamento e rafforzamento degli scenari possibili dell’immaginario, nei quali l’autenticità tentata e perseguita impedisca all’orecchio di Van Gogh di ritrovarsi inopinatamente tra le clausole di assicurazioni sulla vita, ma lo mantiene precisamente là dove è stato (significativamente) deposto: sul bancone di un bordello di Arles. Prodotti che, per una loro intrinseca conformazione (e sia pure giudicata carenza), si sottraggono ai processi di omologazione e clonazione delle immagini e delle procedure quando entrambe chiuse e senza spiragli; fuori da quell’adeguamento a modelli e precetti imposti da modi di simbolizzare comunque autoritari nella loro tensione a confezionarsi impeccabili ed esaustivi per consolidare il perbenismo di massa attraverso l’assuefazione ad una non solo metaforica alta fedeltà da servi di scena, incapaci e interdetti all’errore e alla debolezza, ormai segnatamente umani. Dunque, evocazione performativa attraverso quelle immagini non dissimulative (e per questo neglette dalla estenuante coazione e vizio alla messa a punto deterministica e unilaterale dei segnali e dei messaggi) di uno “spazio d’impresa” dove il punto di messa a fuoco coincida finalmente con la messa a fuoco del punto, cioè dell’occhio stesso, vale a dire del soggetto capace di aprirsi varchi per le proprie sclerosi, aggiuntive o sottrattive che siano; fuori da ogni identità surrettizia per come viene espressa e praticata dal cinismo originato da una ideologia della glorificazione consolatoria di un immaginario soddisfatto e satollo, votato a mantenere perpetuo il cortocircuito con il quale scaldare la perfezione dei propri cristalli liquidi. Non entriamo nel merito dei singoli lavori perché, al momento, ci sembra sufficiente e importante indicarne la specie; e neppure andiamo oltre nel motivare la nostra non solo insinuata predilezione per l’indeterminato e l’eccitazione, giacché una bassa definizione dell’immagine si accompagna necessariamente ad una definizione bassa dell’immagine: sempre più accettabile di una sua definizione perentoria e inappellabile. Dunque questo può bastare...» (cr 1989) |
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